Prima di cominciare a leggere questo articolo, munitevi di una carta geografica dell’Europa come ha fatto, agli albori della sua avventura, il protagonista di cui vi stiamo per raccontare la storia. Lui si chiama Davide Callegari, é nato a Milano ed è partito da Varese – dove si era trasferito da bambino e ha studiato sino al liceo – per diventare (all’estero) un birraio apprezzato e specializzato in un settore, quello delle birre affinate in botte, che anche nel nostro Paese sta riscuotendo un successo crescente.

Oggi Callegari si trova a Stavanger, sulla costa occidentale della Norvegia e – tra un’occhiata e l’altra al Mare del Nord – gestisce con maestria la barrel house – chiamiamola “cantina delle botti” – di uno dei produttori nordici più importanti, conosciuti e apprezzati, Lervig Aktiebryggeri. Un marchio che da tempo si è specializzato anche nell’affinare in legno le proprie stout estremamente alcoliche ma che ha deciso di ampliare la propria gamma di birre invecchiate in botte. E per farlo ha chiamato sui fiordi questo giovane varesino – Davide è del 1988 – che si è fatto notare durante la sua solida esperienza britannica.

Davide, come è iniziato questo viaggio che l’ha portata sino alla direzione di un progetto importante e particolare in un birrificio così lontano come Lervig?
«La strada è iniziata ormai parecchio tempo fa, intorno al 2008: frequentavo la facoltà di biologia a Milano, corso di laurea in biotecnologie e con un compagno di studi iniziammo le prime esperienze di homebrewing e la passione per la birra si fece sempre più seria. Alcuni anni dopo quindi cominciai a collaborare con l’Unibirra di Calcinate del Pesce, sia in sala sia come formatore nei corsi per homebrewers; intanto il mio lavoro di ricercatore non riusciva a convincermi e trovai la possibilità di iscrivermi a un master in scienze birrarie dell’Università di Nottingham. Una laurea come la mia mi consentiva di frequentare corsi in e-learning e così iniziai a studiare, presentandomi una volta a semestre nella città inglese per laboratori e sessione d’esame. Con quella esperienza arrivò anche la prima proposta di lavoro, il primo incarico da birraio».

A Fyne Ales. Da sinistra Jamie Delap (proprietario), Davide Callegari, Yvonne (technical brewer), Wayne Wambles di Cigar City, Malcom (head brewer) e Andrea Ladas


Una occasione da prendere al volo.
«Sì, ed è stato utilissimo per fare gavetta e iniziare ad avere a che fare con questo mondo. La città era Bedford, nel locale di una catena di brewpub chiamata Brewhouse&Kitchen, non il massimo a livello di organizzazione ma appunto interessante per farsi le ossa su un impianto da 500 litri. Terminato quel periodo passai a lavorare per Milestone, un produttore che si occupa quasi solo di real ale confezionate nei cask, altra aggiunta al mio bagaglio culturale e professionale. E poi eccomi a Fyne Ales dove sono rimasto quasi tre anni, una tappa cruciale».

Con Fyne ci spostiamo verso la Scozia e… ci avviciniamo alle botti di legno.
«Esatto, a Nord di Glasgow in un posto meraviglioso ma anche molto remoto. Stavo per terminare l’università e ho sfruttato l’occasione data dal programma Erasmus per giovani imprenditori, nel quale si trovano tutt’ora diverse occasioni per lavorare in birrifici stranieri, anche se con la Brexit queste si ridurranno. Io ho avuto la possibilità di uno stage completo di corso di formazione co-finanziato dall’Unione Europea e in questa tappa ho imparato davvero tanto, pur con una certa fatica legata alla lingua visto che in Scozia non si usa l’inglese fluente di Londra… Da Fyne ho iniziato a lavorare sull’impianto storico, il più piccolo dei due a disposizione del birrificio: lì un birraio italiano, Andrea Ladas, aveva iniziato un programma chiamato “origin project” e dedicato al sour. Birre a fermentazione spontanea, mista, affinate in botte principalmente di whiskey, arricchite con l’uso di frutta “a chilometro zero” visto che usavamo quella prodotta in zona. Quando Andrea decise di tornare in Italia, io lo sostituii a capo del programma. Per me fu una svolta che mi porto dietro tutt’ora».

Davide con la compagna di corso Emily Jobe, americana

Come mai, quindi, la scelta di lasciare Fyne?
«Vivevo in un paese di 70 abitanti, senza neppure il supermercato. Bellissimo, immerso nella natura ma davvero remoto: la “cittadina” più vicina dista una quarantina di minuti dall’altra parte del fiordo, lì almeno si poteva fare la spesa e incontrare qualcuno dei… 600 abitanti. Per andare a Glasgow era quasi un’ora e mezza di auto. Una grande esperienza, ma a un certo punto ho preferito tornare in città. E sono andato a Londra, l’esatto opposto: lì però avevo una buona rete di conoscenze e ho trovato lavoro in un grande birrificio, Beavertown.

Un marchio della grande famiglia Heineken, il primo non artigianale della sua carriera.
«È vero, ma anche una realtà che mi ha permesso di confrontarmi con ritmi di lavoro diversi, con una produzione maggiore e con una serie di caratteristiche comunque importanti. Basti pensare alla grande attenzione che un’azienda del genere mette sulla stabilità del prodotto e sulle analisi di laboratorio. Insomma, altra esperienza senza però divorziare dalle botti, visto che anche a Beavertown mi sono dedicato a un progetto chiamato “Tempus” e dedicato all’affinamento in legno».

La “barrel house” del birrificio norvegese Lervig

Da Londra un altro salto, questa volta in Norvegia grazie a Lervig. 
«Sono arrivato nella capitale inglese poco prima del lockdown, avevo – come molti – programmi diversi ma i piani sono andati in fumo. Lervig, che aveva già una serie di stout ad alta gradazione alcolica – 10%, 12% anche 14% – invecchiate in botti di bourbon ha pensato a un nuovo programma di fermentazioni miste e spontanee. Cercavano un birraio già formato su queste lavorazioni, ed ecco arrivare “l’italiano”».

Qual è, ora, il suo obiettivo. Rimanere in Norvegia o cambiare di nuovo?
«L’idea è quella di restare a Lervig almeno a medio termine: il progetto è interessante e inoltre comporta la creazione di birre con tempi di maturazione e di messa sul mercato piuttosto lunghi. Le prime stout che ho prodotto direttamente io saranno in vendita tra circa 9 mesi, a ridosso dell’inverno perché restano per circa un anno in legno. Per le sour si parla dell’estate e intanto proseguiamo con i test. In una foto, per esempio, vedete il ribes nero che abbiamo raccolto per essere messo in botte».

Da italiano all’estero, come è visto il movimento birrario di casa nostra in Inghilterra e Norvegia?
«Nel mondo britannico mainstream c’è tantissima Peroni che viene prodotta lì da Green King, altro birrificio che fa parte del gruppo Asahi. Però nel mondo craft l’Italia si sta facendo conoscere e ben volere: nei beershop si trovano artigianali italiane anche particolari, però la più amata rimane senza dubbio la Tipopils del Birrificio Italiano. In generale, c’è grande interesse verso i prodotti enogastronomici del nostro Paese, quindi anche la birra ha un suo spazio. La Norvegia invece è molto autarchica ed è anche complicato importare dall’Italia per via di una politica doganale piuttosto stretta. Si vede qualcosa, di certo anche qui Birrificio Italiano, ma è difficile per tutti. Basti pensare che anche ricevere pacchi personali è faticoso: per questo motivo ho dovuto abbandonare l’idea di assaggiare le birre italiane fino a quando tornerò in “visita parenti”».

Il ribes nero pronto per essere inserito nelle “barrel” di Lervig

Inghilterra, Scozia, Norvegia: dall’Italia non ha ricevuto proposte di lavoro?
«Non a livello concreto. Io qualche volta ho pensato di tornare in Italia e tutto sommato non mi dispiacerebbe avere una vita più “normale”, però per il momento ho scelto diversamente. Devo anche dire che i birrifici italiani sono per la stragrande maggioranza aziende molto piccole e una figura come la mia è un po’ differente. Comunque le offerte migliori le ho sempre avute da produttori stranieri».

Siamo a fine intervista e non le ho ancora chiesto che birre ama bere di solito.
«Prima di tutto sono uno a cui piace cambiare, e proprio la grande varietà di stili è uno dei motivi per cui amo la birra. Detto questo, sono un grande appassionato di saison, perché ogni interpretazione di quello stile è praticamente unica, anche per via dell’importanza che ha il lievito sul processo di lavorazione. E poi bevo tanto le sour, un po’ per deformazione professionale, un po’ anche per curiosità e per piacere, visto che le apprezzo molto. Infine, qui a Stavanger, ho potuto apprezzare le farmhouse norvegesi, una tipologia di birre prodotte con i lieviti Kveik. Hanno rischiato di scomparire, sono sopravvissute solo grazie alle produzioni di alcuni agricoltori in aree isolate, gente che usava i cereali a disposizione e addirittura il ginepro al posto del luppolo: ora sono state riscoperte, hanno ripreso un po’ di mercato e sono estremamente piacevoli».

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