(franz) Avevamo tenuto nel cassetto il decimo e ultimo episodio del diario birrario di Alessandro Cappelletti, un po’ perché ci dispiaceva finire questa piccola collana, un po’ perché in questo scritto il nostro (ex) oste parla di un argomento senz’altro delicato. I locali che in questi due anni sono stati costretti a chiudere i battenti. Lo pubblichiamo così com’è, segnalandovi che il testo ha qualche mese e facendo contemporaneamente un incoraggiamento sia a coloro che hanno dovuto dire “basta”, sia a coloro che resistono. E magari stanno prendendo la rincorsa per una nuova primavera.

Episodio 10 di 10 – The Last Dance

A un anno di distanza dai DPCM che decretarono le prime chiusure. Non sono mai stato bravo a fare i bilanci e i confronti con il passato, ho sempre scelto il carpe diem, sieze the day, cogli l’attimo con uno sguardo al futuro giusto per quel minimo di programmazione che la vita richiede. Non ho particolari nostalgie se non per i negozi di dischi, i concerti al Palatrussardi e per Pozzecco-Meneghin, ovviamente di basket varesino si parla. Ma questo non è stato un anno ordinario, già dal suo inizio nasce strano, marzo e non dal solito 31 dicembre. Quello che è successo e sta succedendo è extra-ordinario e richiede una extra-ordinarietà per essere vissuto e sopportato.

In questa saltuaria rubrica, da dividere tra difficoltà lavorative, giorni da colorare, incertezze e stress, noia e quotidianità interrotta, aperture fino a non si sa quando, abbiamo parlato di bottiglie, brand, mastri birrai. Del resto, l’argomento, erano le dieci birre che mi hanno avvicinato al mondo artigianale, o qualcosa del genere. Nove le abbiamo elencate e anche qualcuna in più. La decima non c’è perché oggi vorrei parlarvi dei luoghi nei quali si beve birra, i pub, e la ragione è piuttosto scontata.

Pochi sono i settori che non sono stati urtati dalla pandemia, molti l’hanno subita alcuni sono stati travolti e tra essi la ristorazione. Non è uno scoop, lo sappiamo tutti. Parafrasando una vecchia hit: cosa resterà dell’anno 20? (E, ahimè, mi sa anche del 21….). L’elenco di pub e ristoranti che hanno già tirato giù la serranda per sempre è già consistente. É un dolore che mi colpisce personalmente, dato che ho fatto questo lavoro e ho dovuto chiudere anch’io il mio pub (qualche anno fa) per cause di forza maggiore: il locale, che gestivo, era stato messo in vendita, mi fu fatta la proposta di acquisto ma, dopo un’attenta analisi e un disperato business plan, mi resi conto che non ce l’avrei fatta in nessun modo. In questi mesi ci ho pensato spesso: e se avessi accettato?

Oggi sarei sommerso di debiti con le banche, come quei tanti imprenditori che tenacemente tentano di resistere alle ondate di questo virus. Chiunque abbia mai portato avanti una propria attività sa che non esistono i turni di lavoro, i week end, le festività e anche le ferie sono un’opinione: io, in sei anni di attività, ne ho fatti in tutto 51, neanche dieci all’anno. Ma non mi è mai pesato perché fare l’imprenditore nel mondo della ristorazione ha una particolarità che lo rende diverso dalla maggior parte dei lavori: si lavora quando gli altri staccano, non lavorano e cercano un luogo per rilassarsi e lasciarsi alle spalle per un paio di ore i casini. I clienti non cercano soltanto cibi buoni e bevande gustose, vogliono divertirsi e stare sereni.

Il vero compito della ristorazione, in realtà, è proprio quello di creare un clima positivo per gli ospiti. Se si è capaci di farlo, aprire la bottega è gioia e, sempre personalmente, non ricordo una mattina in cui mi sia svegliato pensando: “oddio, che palle, devo andare a lavorare”. Si fanno molti sacrifici, si dimentica la famiglia, si mettono da parte gli hobby, si rinuncia a quasi tutto per il proprio pub/bar/ristorante. Per questo, in questi giorni, sento forte il grido di dolore dei miei ex colleghi e quest’ultima puntata, The Last Dance, è dedicata a loro, agli sforzi che compiono, ai sorrisi obbligati che mostrano sui social per fare finta che “andrà tutto bene”, alla capacità di essersi reinventati al delivery, ai soldi che perdono, ai debiti che accumulano per mantenere in vita un sogno che è la propria vita. A quelle giornate che iniziavano alle dieci di mattina e finivano alle boh della notte, sei giorni alla settimana che il settimo comunque sei lì, nel tuo pub, a guardare le sedie con le gambe in aria, dentro i frigoriferi per fare la lista della spesa, il bancone se è stato tirato a lucido, la cucina che ieri notte era un campo di guerra vietnamita e oggi ispira pace, serenità e ordine conforme ai protocolli HACCP mentre risenti, nella testa, tutte le storie che sono passate dai tavoli, le risate, le chiacchiere, le discussioni, ogni tanto anche i pianti, nascosti per pudore, gli sguardi persi nel vuoto, le feste e le ordinazioni che a volte raggiungevano i ritmi di un frullatore.

Qualcuno purtroppo non ce l’ha fatta, penso al Twiggy dell’amico Francesco Brezzi, fondato nel 2010, lo stesso anno del mio Binario Zero, due locali diversi per stile ma identici nello spirito, capaci di aggregare non solo una clientela, ma una comunità alternativa che lì aveva trovato non solo un locale, ma un’estensione di casa propria. Quello che dovrebbe essere un pub, quello che è Il Pub, quello che molti stanno cercando di tenere in vita contro qualsiasi logica.
Per tutto questo, quindi, la decima birra di dieci, è La Prossima, quella da bere al pub (ora che per lo meno sono riaperti ndr). Credo sia stato Steve Jobs a dire: “non si apre un’attività per fare soldi, si apre un’attività perché si ha un sogno”. Voi, che avete il Potere, fate in modo che questi sogni possano continuare…

(grazie, Ale!)

Puntate precedenti – 1. L’Agripub di Gallarate – 2. U-Fleku – 3. Hacker Pschorr 1417 – 4. Ayinger und Aktien – 5. La Rebelde di Orso Verde – 6. Conciati come il Belgio – 7. Acido Acida – 8. Il culto di Mikkeller – 9. Baladin

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